Claudio Stea afferma:

“Il maestro Vito Paternoster ha compreso sin dall’inizio quale fosse la mia strada musicale,

mio padre, sin da piccolo, ha reso possibile il mio approccio al pianoforte comprando uno Stainway and Sons a coda,

Paternoster invece, mi ha spiegato come intraprendere il mio dialogo sonoro col pianoforte;

non mi ha insegnato a suonarlo, ha delineato una strada da percorrere insieme ad esso;

è difficile da spiegare,

ero un ragazzino alle prime armi, amante di Freddie Mercury, innamorato totalmente delle sue melodie,

ogni giorno suonavo i suoi pezzi al pianoforte senza leggere lo spartito,

spesso correvo dal maestro per fargli ascoltare le nuove reinterpretazioni,

e lui mi ascoltava, mi osservava, taceva.

Erano delle sedute sui generis,

senza grandi regole.

Il maestro Paternoster in quel perido lontano, cercò in silenzio di capire quale fosse la mia strada musicale,

poi mi lasciò andare senza dirmi più di tanto cosa fare.

Per venti anni ho camminato nel mio mondo sonoro collaborando con tanti bravi musicisti che mi hanno fatto fare una vera e propria “gavetta musicale”,

forte del mio orecchio assoluto,

forte delle mie propensioni sonore più vere e sincere.

L’unica cosa che il maestro mi disse prima di salutarci fu: vai per la tua strada,

suona quello che ti senti di suonare senza condizionamenti, ed eventualmente torna qui da me tra 20 anni.

Ecco.

Sono trascorsi venti anni da allora,

e ci siamo ritrovati.

Abbiamo chiuso un cerchio sul palco del teatro Petruzzelli a dicembre 2019.

Ho suonato con lui un brano composto una notte di maggio,

mentre il cielo piangeva.

Nella composizione “La notte di Layla” il suo violoncello svetta sulle note del mio pianoforte come un raggio di luna nel cielo più oscuro.

Il maestro Paternoster per me rappresenterà sempre colui che in tempi non sospetti ha capito realmente quale musicista fossi,

un anarchico suonatore per pianoforte lontano da tutto ciò che è imposizione, vicino a tutto ciò che è sentimento.”